7.9.13

Gilda

Non l’avrebbe mai detto che sarebbe finita così.
Veramente, veramente mai.
Forse qualche indizio dalle ultime ore, o negli ultimi giorni... Ma al primo incontro se si fosse aspettato una cosa del genere avrebbe certo agito in maniera differente. E anche se avesse intuito il cosa, certamente non avrebbe potuto indovinare il come.
O forse, non aveva nessuna possibilità. E finire sanguinante, appeso per i suoi stessi muscoli ad un muro, mentre il suo cuore veniva estratto sotto i suoi stessi occhi dal proprio petto assieme a vene, organi e sangue era inevitabile.
La macabra perfezione dello sguardo languido e vittorioso della donna scomparve sotto i suoi capelli corvini, mentre le sue fauci si chiudevano a inghiottire il centro del suo essere.
Era terrificante.
Ma ora, a un passo dalla morte, si rese conto che anche se avesse voluto, o avesse saputo, non le avrebbe detto di no. E che tutto il dolore, il male e il sangue dipingevano come colori su una tela polverosa una perfetta e magnifica fine di una vita indegna di una tale macabra magnificenza.
Ed era incerto se rammaricarsi o gioire di tutto quel sangue e quella bellezza.

- Mi piace la tua maschera.
L’approccio era quasi banale. Ma dopotutto, un complimento è un complimento.
E tutto andò in fumo.
Eppure già lo sapeva, già si era chiarito tutto nella mente, da quando l’aveva vista poco prima.
Lo sguardo acuto, il viso allegro e il corpo perfetto lo avevano tentato.
Ma qualcosa lo aveva fermato. Uno strano istinto, qualcosa che non molti esseri umani hanno ancora particolarmente sviluppato, dall’età della pietra.
Per questo era camminato via, evitando lo sguardo di lei e immergendosi tra gli altri avventori del pub, e aveva continuato a girare per la festa senza nessuno scopo o motivazione. Mangiare, ballare, bere, commentare le maschere più elaborate con gli amici, fare qualche complimento alle donne in costume più svestite...
Si chiamava Gilda. Un nome particolare, unica particolarità di un’apparenza del tutto normale, agli occhi di chiunque. Vestiti normali, nessun trucco ostentoso, un bel viso regolare, e un corpo troppo nascosto da un elegante vestito perché chiunque potesse immaginarne esageratamente le fattezze sotto gli abiti.
Ma gli occhi... Gli occhi la dicevano lunga. Più del suo modo di parlare, delle battute e della giovialità. Non avrebbero detto nulla a nessuno se lei non avesse voluto mostrarli. Ma in un attimo fugace, mentre salutava il suo amico che le versava il drink, lo sguardo di lei si riversò negli occhi di lui. Fu un attimo, un breve istante. Ma a cambiare la vita di un uomo, o a condannarla, spesso un istante basta.
E lui doveva aver intuito la gravità della cosa, in qualche angolo della sua ottusa mente da bestia da festa. Quello sguardo significava guai. E da lì decise di evitarla.
Che stronzata. Andarsene in giro per una festa come uno sfigato solo per evitare una donna.
Un drink, due, l’agitazione che cresce, e la decisione di andarsene per risparmiarsi questo strazio. Si sarebbe guardato un film a casa, magari ordinando una pizza...
Ma quando uscì per raggiungere la macchina, lei era dietro la porta.
- Mi piace la tua maschera.
E di fronte allo sguardo di lei, tutte le intenzioni di semplicità andarono semplicemente in fumo.
- Grazie.

E poi, te la ritrovi dappertutto.
Cellulare, Facebook, altre uscite. A volte sotto casa dopo aver chiuso il portone, senza preavviso.
E dove non la vedi vorresti che fosse lì.
E in men che non si dica, ti scopri a invitarla fuori. E a essere invitato.
Il “crack” arrivò alla terza uscita.
Mai da soli, sempre con altri. In quell’illusorio desiderio di evitare ciò che in cuor tuo sai perfettamente che accadrà schermandoti dietro i tuoi amici.
Ma alle decisioni di volontà superiori non ci si ribella così, ragazzo.

Il terzo appuntamento si svolse in un luogo fantastico.
Era troppo freddo perché zanzare e altri insetti fossero un problema, ma non abbastanza da rendere impossibile stare seduti all’esterno vicino alla risacca sotto le lampade termiche sparse qui e là. E nonostante gli altri, i due si ritrovarono a passeggiare nei dintorni del locale sul lago, sulla spiaggia, parlando del più e del meno.
E seduti a chiacchierare, lui si distrasse a guardare nella direzione del locale, attirato dalla scarica delle casse dell’impianto audio che si accendevano per dare inizio alla serata karaoke.
Quando nei giorni successivi ripensò a quel momento, era sempre più sicuro che stesse pensando di cantarle qualcosa, in quel preciso momento. Ma la certezza totale non la ebbe mai, perché se quel pensiero gli balenò in mente, fu solo per un istante. Un istante interrotto dalla voce di lei, sussurrata in un orecchio con femminilità e sensualità impossibili.
- Voglio sentirti cantare.
Crack.

Magia. Pura e semplice magia. Incontro dopo incontro, settimana dopo settimana, lui se ne rese conto. Lei è perfetta. Sempre più perfetta. Intelligente, bellissima, dolce quando vuole, divertente quando vuole, con un sarcasmo acuto e delicato.

- E se ti dicessi che ti amo?
- Non ne sarei sorpresa nemmeno un po’.
Sorride sempre quando parlano. Lui fa un broncio un po’ strano, tra il divertito e lo scocciato.
- Hai un’opinione così alta di te stessa?
- Decisamente. Ma non è solo quello.
- E allora cosa?
- Me lo aspettavo.

E cominciano i regali. Prima un fiore, poi della musica, una collana... Lei è sempre l’apoteosi della gratitudine. Sorride e lo bacia con passione tutte le volte. E questo porta a volerla veder sorridere ancora di più, a cercare i suoi baci appassionati ancora di più, e a voler andare oltre.

- Ti desidero.
- Lo so.
- ...e?
Sempre quel sorriso.

E la sua doppia vita comincia a crollare. La vita con Gilda, vissuta sempre e solo di notte, incontrandosi la sera dopo il lavoro, cercandola uscito dall’ufficio, comincia a intaccare quella di giorno, passata sulle carte e sui progetti. E’ distratto, la cerca e lei non risponde, e quello che prima poteva essere un chiodo fisso diventa un’ossessione. Vuole vederla tutte le sere, e tutti i giorni. Non gli basta mai.

- Non capisco come mai sono così attratto da te...
- Lo credo bene. Ma forse il motivo è talmente palese che ti sfugge.
- Che intendi dire?
- Sarò buona e te lo dirò. Io sono perfetta. Tutto di me ti attrae, e non solo per le mie fattezze, ma perché mi sono allenata tanto, tanto tempo per fare in modo che fosse così. Questo, aggiunto all’aura di mistero che ho elaborato accuratamente, ti spinge a volermi conoscere, a voler sapere chi sono. Sono un bellissimo, perfetto mistero.
- Vuoi dire che fai tutto questo consapevolmente e deliberatamente?
- Ci puoi scommettere. Mi piaci troppo per essere meno di perfetta nell’attrarti a me.
- Mmmh...
- La cosa ti infastidisce?
- No. Sì. ...Beh, forse. Insomma, mi sento preso in giro...
- La parola che stai cercando è “manipolato”.
- Ma perché?
Gli sorride.
- Te l’ho detto. Ti trovo splendido, e ti voglio tutto per me.
- E io allora?
- Non senti di essere apprezzato?
- Non lo so... Non mi rispondi mai quando ti cerco di giorno.
- Non posso.
- Perché?
- Non capiresti.
- ... ti avrò mai Gilda?
Sorride ancora. Quel suo sorriso splendido.
- Se avrai pazienza e sarò brava, sì. Ti darò tutto. E ti prenderò tutto.

Mesi così. Regali, attenzioni... Senza mai chiedere niente.
E senza mai ricevere niente.
Ogni carezza, ogni bacio è una silenziosa preghiera che trova soddisfazione.

Il cuore umano è una cosa strana. E arrivare a odiare per amore è una tra le cose più strane che il cuore umano riesce a realizzare.
Si pensa che amore e odio siano agli antipodi, perfetti opposti.
Potrà anche essere così, ma quando entrambi saturano la propria parte di anima, arrivano così vicino da sfiorarsi e compenetrarsi a vicenda.
Quando la mente realizza terribili seppur piccole vendette, come un saluto non dato, un bacio negato o simili inezie, e poi il cuore impedisce di metterle in atto, l’effetto è che la mente ne crea di sempre peggiori. Così la frustrazione si tramuta in rabbia, che diventa odio, e rancore e follia, che costantemente vengono fatte a pezzi con il solo sguardo di lei.
A nulla valgono messaggi, lettere o registrazioni sulla segreteria telefonica, quando di fronte ai suoi occhi crolli a piangere e a chiedere scusa.
E ogni sua parola o carezza disintegrava ogni rabbia. Quel suo sorriso, quella sua promessa costante di un amore profondo come la notte...
E quando neppure gli specchi rotti dalla rabbia, le lettere di licenziamento, i pestaggi nei locali per scatti d’ira trasformati in risse ti danno la forza necessaria ad affrontarla di petto con orgoglio e giusta rabbia, ecco che la frustrazione, l’insoddisfazione, la furia sfociano in una follia incontrollabile.

E come ogni cosa non controllata, portata all’estremo, la follia non può che finire in tragedia.

- Io... Che.. che... Che cosa ho fatto?
Cade a terra, il ragazzo. In ginocchio, gli occhi sgranati che fissano le mani di un assassino, lorde di sangue, sudore e pioggia.
Le mani tremano. Dietro di esse, a terra, il corpo di chi non si alzerà mai più.
E tutto è sfocato, confuso. La memoria non è altro che un film, proiettato nella mente di chi lo osserva come un estraneo. E alle estremità della consapevolezza, si fa strada la più terribile delle verità.
- L’hai ucciso, amore mio.
Il film continua, continua ad essere girato mentre gli occhi riprendono il presente, e le orecchie registrano delle parole che mai avevano udito prima venir recitate da quella splendida, splendida attrice.
- Gilda...
L’abbraccio rompe l’incantesimo sul torpore del corpo di lui. Ma la mente è ancora una spettatrice in un cinema dell’orrore.
- Ti amo. E staserà ti renderò mio per sempre.
Stop. Macchine spente. Smontare la scena.

13.1.12

Paura e corde

Era legato.
La testa gli faceva male. Ci mise un minuto per riprendersi e mettere a fuoco il mondo attorno a lui, che si rese conto consistere solamente in un cerchio di un paio di metri illuminato da tre riflettori che puntavano dritto su di lui.
Le luci erano fredde, cupe, di un'intensità accecante.
Il terreno era brullo.
Si rese conto di essere seduto su una sedia.
Stringeva gli occhi per la troppa luce. Non riusciva a vedere quasi nulla.
E poi la voce. Cupa, racchiante.
- Ben svegliato, Stefano...
La voce veniva dalle sue spalle.
Tremava.
Esilarante.
- Dove sono? Chi diavolo sei tu?
Si agitava sulla sedia, provando a forzare i legacci, inutilmente.
- Chi sono io non importa, Stefano... L'importante è chi sei tu.
Continuava a muoversi. Si voltava, per cercare chi stesse parlando, ma la luce gli impediva di scorgere alcunchè.
- Non preoccuparti, non ho intenzione di farti alcun male... - una risata gracchiante - A meno che non sia utile farlo.
Smise di forzare vistosamente le corde, e cominciò a tremare di più.
Sentì la risata. Un ghigno, che veniva da davanti a lui. Oltre la luce. Invisibile.
- Sei qui per un motivo, Stefano... Un motivo a me molto caro
Quasi singhiozzava.
Il terrore scivolava sul suo volto in perle di sudore, e sconquassava il suo corpo con tremiti irrefrenabili.
- Che cosa vuoi da me?
- Voglio che mi racconti, Stefano... Che mi racconti della tua famiglia.
Si agitò, cercando il suo rapitore, che si era spostato senza fare rumore, e faceva provenire la sua voce rauca da sinistra.
- Della mia famiglia?? Ma che significa? Chi sei tu?
Era confuso. Spaventato.
Beh, prevedibile...
- Non amo ripetermi, Stefano. Ti ho detto che chi sono io non importa. Ciò che conta è che tu sei un Colteri. E che sei nipote di tuo nonno.
La paura si infiltrò nella sua voce, trasformando le sue parole in ansimi incontrollati.
- Mio nonno?! Ma di che stai parlando, COSA VUOI DA ME?
Non avrebbe dovuto urlare. Forse non si sarebbe ritrovato con il gelido tocco dell'acciaio sul collo, e la testa tirata all'indietro da una mano guantata, mentre la voce più lugubre che avesse mai udito gli gracchiava nelle orecchie.
- Non. Ti. Agitare. Mi innervosisci, e ti assicuro che è meglio che nella tua posizione io non mi innervosisca. Non pensi?
Il fiato reso corto dal terrore di percepire il gelo della lama sulla pelle gli impedì di parlare, ma l'accenno della sua testa fu più che sufficiente.
La presa si dissolse, il freddo si allontanò dal suo collo, ma non certamente dal suo cuore, la cui corsa impazzita quasi rimbombava nel silenzio della luce accecante.
La voce era nuovamente di fronte a lui. Troppo veloce. Troppo silenziosa.
- Dunque, Stefano... Tuo nonno, come certamente sai, era nell'esercito durante la guerra. Vero?
Deglutì, e mosse la testa quel tanto che bastava per distinguere un fremito da un'accenno. La confusione si aggiunse alle varie sfumature di paura che lo ghermivano.
- Dopo l'armistizio si diede alla macchia, come molti suoi commilitoni. Confermi?
Annuì di nuovo.
- S-sì... M-ma tu come fai a sapere queste cose? E che ti importa? - la disperazione ruppe la sua voce e lacrime cominciarono a fluire dagli occhi feriti dal bagliore delle lampade e traboccanti di panico.
Di nuovo la risata.
- Questo non è importante... Tuo nonno ti voleva molto bene, vero?
Un silenzio confermatore.
- Tu eri il suo nipote preferito...
Stefano cominciò con agitazione a cercare il suo rapitore, mentre il cuore accelerava la sua corsa.
- Noi... eravamo molto legati. - un altro singhiozzo – ti prego, lasciami andare... Cosa vuoi da me?
- Passavate insieme molti finesettimana...
Il terrore più puro che Stefano ricordasse gli spalancò gli occhi e gli tolse il respiro.
- E tu come fai a saperlo? - la voce tremava talmente che le parole uscirono simili a un rantolo sussurrato.
Il ghiaccio che gli gelava la schiena si inspessì all'udire di nuovo la risata gracchiante dello sconosciuto, che proveniva da vari metri a sinistra. Troppo lontano perché potesse esserci arrivato senza fare rumore, come era successo.
- Ci sono molte foto vostre, nei tuoi album di famiglia...
Il panico più totale assalì l'uomo, che cominciò ad ansimare vigorosamente, e che gli diede la forza per urlare.
- Oh mio dio... SEI STATO A CASA MIA!! Se hai fatto del male alla mia famiglia giuro che...
Il gelo della lama che premeva nuovamente sul suo collo lo interruppero. La testa nuovamente bloccata, con più vigore.
- Non preoccuparti, la tua famiglia sta benissimo. Non si sono nemmeno accorti della mia presenza... - poi la voce era al suo orecchio sinistro – come te.
Si girò di scatto. Nessuno. Il gelo sulla gola era svanito. Le gocce fredde di terrore che macchiavano il suo viso cominciarono a impregnare i vestiti. Gli occhi spalancati non facevano altro che lasciarsi accecare di più. La forza della disperazione urlò per lui.
- CHI SEI TU?
Silenzio.
I singhiozzi di Stefano furono l'unico rumore nel gelido silenzio di luce e terra per qualche secondo. Il sangue dei polsi feriti dalle corde troppo strette si mescolò al sudore e macchiò le mani di Stefano, colando goccia a goccia sul suolo di nuda terra.
Poi da lontano di nuovo il gracchiare assordante del folle rapitore.
- Ho letto le lettere che vi siete scritti...
Solo altri singhiozzi.
- E sono qui perché tu mi racconti.
Scosse la testa. Ormai il volto era colmo di lacrime, mentre l'ultima delle sue resistenze andava in pezzi di fronte alla disperazione.
- Ti racconti cosa? - pianse in un gemito.
- Il giorno della sua defezione. Voglio che mi racconti cosa successe in quel casolare...
Era scritto nei suoi occhi. Avrebbe raccontato tutto. Tutto ciò che non era stato scritto nelle lettere. Tutto ciò che non aveva mai raccontato a nessun altro. Tutto ciò che era rimasto nascosto così a lungo...

Mi avrebbe detto tutto ciò che volevo sapere.

18.12.11

Dalle memorie di Ruby - Presentazioni

19 ottobre 2013 – 22:13
Una donna affascinante, non c’è che dire.
Beh, alquanto ovvio. Non credo esista una arpia Toreador che non abbia mai imparato come utilizzare al meglio i propri poteri di ammaliamento. Indossava un abito rosso d’alta moda, che risaltava non poco i capelli biondi, raccolti in una acconciatura appariscente. Probabilmente ogni uomo eterosessuale e probabilmente anche qualche donna sarebbero stati disposti solo guardandola a fare cose innominabili se lei lo avesse chiesto loro. Terrificante. E ammirevole.
- Salve signori. - ci salutò dopo aver scambiato due parole con i suoi tirapiedi. A ogni suo passo i boccoli dei suoi capelli biondo cenere ondeggiavano sinuosamente, in un movimento quasi ipnotico
- Scusate per l’attesa... Mi presento. Sono Annalisa, arpia del clan Toreador e del Principe di Venezia, Ludovico Manin, e sono molto lieta di accogliervi nel Dominio della Camarilla di Venezia. Loro sono Tony e Jean Baptiste, spero che abbiate già fatto conoscenza.
La pausa che seguì le sue introduzioni pretendeva con arroganza i nostri saluti e le nostre presentazioni.
Mi mossi per primo. Meglio non far aspettare chi potrebbe offendersi di essere lasciato attendere.
- Ruby Dubois, giunto da Ginevra su ordine della Camarilla e del clan Tremere. Lieto di essere accolto nel Dominio del principe Manin.
La Toreador mi degnò di uno sguardo, per poi porre la sua attenzione sul più appariscente dei presenti, neppure degnandosi di rispondere al mio saluto.
Dall’alto del suo metro e novanta di fisico da sopravvissuto contornato da una canottiera bianca senza maniche, pantaloni militari e anfibi neri, il ragazzo alla mia sinistra colse l’invito insistente dello sguardo di Annalisa.
- Lucas, Gangrel, da Perugia. - alzò per un attimo, in un saluto di sufficienza. il braccio destro che un attimo prima era incrociato sul petto assieme al sinistro. - Piacere.
Lo seguì il ragazzo seduto sul divano accanto a lui. Bell’aspetto, ben curato.
- Michelle, onorato di fare la sua conoscenza. - L’educazione nella sua voce malcelava un po’ di sgarbataggine. Non era contento di essere lì. Beh, come biasimarlo?
Fu il turno del bel tenebroso accanto a Michelle. Vestito in maniera elegante, capelli lunghi e ben curati, cappotto nero.
- Armand, piacere. - se addirittura io colsi il disprezzo celato nella sua voce ritengo non fu difficile per Annalisa scoprirlo sotto la sufficienza di quella presentazione.
La ragazza che si era tenuta in disparte, dal fisico da atleta, fece un passo avanti.
- Aida, molto lieta. - educata ma essenziale. Probabilmente non molto abituata a situazioni del genere... Come pareva lo fossero tutti.
Me compreso.
Ottimo. Cinque sconosciuti, probabilmente senza esperienza, in una situazione di crisi con nessuna informazione, inviati senza potere.
Traduzione: carne da macello.
Tipico. Il silenzio che seguì le nostre introduzioni fu spezzato dal mio cicerone.
- E io sono Sunshine!!! - esclamò improvvisamente. Tutti i presenti si girarono verso di lui, quasi tutti con sguardo un po’ torvo.
- Chi è questo finocchio? - chiese Armand scioccato.
Sunshine lo guardò, con lo sguardo di un bambino innocente che sta spiegando un’ovvietà.
- Io non sono un finocchio. - disse infilando una mano all’interno della giacca traboccante occhi - QUESTO è un finocchio. - affermò con aria di rivelazione, estraendo da una tasca interna un vero finocchio.
- Da dove diavolo... - Armand rimasestizzito. Come tutti i presenti.
Jean Baptiste, il ragazzo dai capelli neri accanto alla padrona di casa lo apostrofò, in maniera troppo seria perché fosse una battuta, con un tono decisamente somigliante ad una minaccia velata.
- Poteva andarti peggio, pensa se gli avessi dato dello scoppiato.
Sunshine rise, in maniera palesemente malata. Una risata isterica che cessò come era iniziata, sostituita da uno sguardo serio e concentrato, che seguiva con attenzione qualcosa di invisibile mentre si muoveva nella stanza.
Non pareva che Annalisa avesse apprezzato in particolar modo le presentazioni. Ma non ci diede a vedere di averle disprezzate.
- Siate i benvenuti. - ci disse, distraendoci dalla follia dell’eccentrico veneziano - Ebbene, il Principe si rincresce di non potersi presentare di persona, ma purtroppo questa notte è impegnato altrimenti. - si sedette sul divanetto opposto a quello occupato da Michelle e Armand.
Con i suoi due sottoposti alle spalle pareva un incrocio tra una principessa su di un trono e un boss mafioso nella sua tana.
Decisamente appropriato.
- Non dubitate comunque che la vostra presentazione è ritenuta in pieno accordo con le Tradizioni, e che siete i benvenuti qui a Venezia.
Aspettai un paio di secondi che qualcun altro parlasse, e decisi di non far attendere oltre dato il silenzio dei presenti:
- Sono lieto di sentirlo, e mi dispiace di non poter incontrare il Principe di persona. Speriamo tuttavia di poterci presentare a lui stesso il prima possibile.
Lei mi guardò squadrandomi un poco.
- A tal proposito egli ha disposto acché siate a lui introdotti domani sera alle nove, presso Palazzo Ducale.
Annuii, e anche gli altri presenti mostrarono di aver registrato l’informazione.
- Ebbene - prese parola Lucas - come mai il Principe non ha potuto riceverci? In cosa è impegnato di preciso?
Annalisa guardò Lucas e rispose con fare appropriato alla sgarbataggine dimostrata dal Gangrel.
- Come ben saprà, Venezia è in subbuglio in queste notti. Le assicuro che il Principe ha impegni vitali per la sopravvivenza del Dominio a occupare la sua agenda.
Lucas assorbì il colpo chinando lo sguardo e sogghignando divertito:
- Non ne dubito. Ma vede, noi siamo stati mandati qui per indagare, giusto? La mia domanda era abbastanza chiara, ma mi ripeto: cosa impegna il principe di preciso? Cosa è accaduto in particolare queste notti da richiedere la sua attenzione stasera? Sarà ora che cominciamo a indagare, dato che è per questo che siamo qui, no?
Michelle si affrettò a mitigare le parole del suo concittadino:
- Effettivamente, signorina Annalisa, è per questo che siamo qui. Potrebbe gentilmente raccontarci i fatti e il loro svolgimento?
Annalisa guardò Lucas con uno sguardo di disprezzo e divertimento mascherati da una sorridente maschera di cortesia.
- Sì, beh... Effettivamente la vostra richiesta di informazioni è legittima. - si riavviò i capelli e cominciò a raccontarci con eloquenza: - Ebbene, un paio di settimane fa gli esponenti della Camarilla in città hanno cominciato a perdere i contatti con i membri del clan Giovanni, che per la notte del nove Ottobre si è completamente dileguato, sparito nel nulla. Quella stessa notte la città è stata attaccata da un gruppo di vampiri provenienti dal mare. Il combattimento è durato due notti, fino a che l’assalto non è stato respinto, nella notte del dieci Ottobre. Ma durante le ultime schermaglie è sopraggiunto il maremoto, che ha colpito e danneggiato la città. La Camarilla ne è uscita vincitrice ma indebolita - guardò Lucas con lo stesso sguardo provocatorio di poco prima - ed è per questo che il Principe è molto impegnato.
Lucas fece per rispondere, ma Michelle gli poggiò una mano sul braccio. Si limitò a sorridere sfacciatamente, ma non obiettò.
Fu Aida a porre la domanda seguente. - Si sa chi è stato ad attaccare? Ci sono stati prigionieri?
Annalisa la osservò un attimo e poi rispose
- Per quanto ne so, credo che fossero Assamiti. Non sono a conoscenza di prigionieri, ma è possibile. La certezza è che non ve n’è più nessuno che minacci il nostro territorio. La Camarilla non transige su chi invade e minaccia i nostri domini.
Quanta fierezza e sfacciataggine nel rimarcare il possesso di un territorio che la Camarilla stessa aveva acquisito da meno di due giorni, al tempo.
Lucas certamente stava pensando la stessa cosa.
Solo che lui lo dava a vedere, mentre io invece no.
- Trova la cosa divertente... Lucas, giusto?
Il gangrel ridisegnò la propria risata in un sorriso.
- Sì, molto. Ma io mi diverto facilmente.
Annalisa lasciò cadere la questione, ma io no. Cedetti alla curiosità. Dovevo pur sapere con chi avevo a che fare.
Scrutai la figura imponente del perugino alla ricerca delle sue emozioni... Non fu difficile.
Disprezzo. La sua figura ne era circondata. Nonostante l’apparenza rilassata e gioviale, faticava a mantenere celato la rabbia e il disgusto. Per chi era intuibile... O almeno al tempo credevo fosse così.
Non indagai oltre, e ripresi la concentrazione sulla conversazione. Non dovetti stare concentrato su di essa molto a lungo, tuttavia.
- Ebbene - disse l’Arpia alzandosi con fascinosa grazia - spero che troviate ciò per cui vi abbiamo richiamati. Ora i miei impegni mi richiamano all’ordine. Ho un locale da gestire e molte faccende da sbrigare. - ci guardò tutti negli occhi mentre ci parlava - Se qualcuno di voi necessita di un posto dove passare la notte, sappiate che la mia casa è aperta a chi ne chiederà l’accoglienza.
- Non ce ne dimenticheremo. - asserii velocemente, cercando di distrarre la nostra ospite dall’espressione di disgusto che per un attimo aveva invaso il volto di Armand.
Ci salutò con un cenno e se ne andò, ancheggiando e facendo ondeggiare i capelli curatissimi.
Fummo scortati fuori dai due tirapiedi di Annalisa. Sunshine ci seguì, continando a seguire con lo sguardo il nulla in movimento.

29.6.11

Diario di Armand - L'Etoil D'Or

19 ottobre 2013 – 22:00 circa

Mi sono sempre chiesto perchè più le persone si ritengono importanti più si fanno attendere. Insomma, non ho mai visto nessun professore, avvocato o politico arrivare in orario e non è che fra Cainiti il concetto sia poi così diverso: quelli che aspettano sono sempre gli ultimi degli stronzi.

Almeno i divanetti sono comodi.
Non è un locale di cattivo gusto, ma è pieno di quei noiosi pidocchi che si credono intellettuali soltanto perchè vanno alle mostre ed agli spettacoli teatrali. Ci sono sempre stati quelli così: potrebbero stare per ore a raccontarti la storia della loro vita che è sempre la stessa – tutti grandi artisti geniali che la società non apprezza – e piangersi l'un l'altro addosso in mezzo ad un mare di sorrisi falsi. Ma tanto alla fine anche loro vengono qui per rimorchiare e scopare, c'è poco da fare, quindi perchè perdersi in chiacchiere? Anche se io non so chi ha scritto quel libro pallosissimo che hai sul comodino, vorresti comunque infilarmi la lingua in gola, no? Stupidi intellettuali.

Spero di non aver spaventato troppo il barista: questo posto è pieno di specchi e temo si sia accorto del mio piccolo problema. Per fortuna nei locali la gente ci mette poco a convincersi di essere semplicemente sbronza e se proprio ho bisogno di giustificarmi... La scusa del prestigiatore di solito funziona. Anzi, è proprio ottima: da quando l'ho usata con quel tizio che aveva lo specchio proprio sopra il letto ho capito di poterci fottere un po' tutti. Quanto si era eccitato quell'idiota! Chissà come mi è venuto in mente: i maghi non mi sono mai piaciuti.

Lei non arriva. E siamo tutti qui ad aspettare.
Odio far conversazione per ammazzare il tempo, ma il tipo accanto a me è splendido. Forse quattro chiacchiere con lui potrei anche sforzarmi di farle anche se temo che sia uno di quei tipi con la puzza sotto il naso. E' un Fratello, come quello accanto a lui. Sembrano conoscersi anche se l'altro è un omaccione grande, grosso e selvatico, con tanto di anfibi e pantaloni verde militare. Ad alcuni piacciono i tipi così... Animaleschi. Dietro di loro, in piedi, accanto ad un tavolino con un mazzo di rose c'è una ragazza con il classico look da "Non ci provare o ti spacco la faccia": quelle così di solito si sottomettono solo quando trovano quello più stronzo e fuori di testa di loro. Anche lei è un tipo, senza dubbio. E poi c'è un uomo che cammina per la stanza sospettoso: fosse per lui svuoterebbe tutti i vasi da fiori e ci guarderebbe dentro, ci scommetto. Non saprei dire quanti anni dimostra: doveva essere giovane quando è stato Abbracciato... Ma non sembra portarseli piuttosto bene. Ha una giacca lunga e sta lì a lanciare occhiatine: troppo educato, non è il mio tipo.
Quelli così ti chiedono scusa anche se gli pesti un piede.

Davanti alla porta ci sta l'idiota vestito da mago. Ora, qui siamo tutti strani ma questo tipo è proprio un fenomeno da baraccone: sembra uscito da un manicomio con quel diavolo di cappello da mago Merlino. Sta lì che canticchia qualcosa di incomprensibile... E se questo è il comitato di benvenuto non voglio immaginare come sono gli altri. Vicino a noi, su un altro divanetto, ce ne sono altri due che sembrano essere del posto: hanno fatto un cenno al pazzo quando è entrato.
Uno è un ragazzino, con una camicia più grande di lui arrotolata fino ai gomiti, le bretelle e le fondine in bella vista. L'altro invece ha un gessato bianco ed lunghi capelli neri: carino, ma ha un'espressione che non mi ispira particolarmente fiducia.

Qualcuno intorno a me sta cominciando a conversare.
La ragazza è silenziosa ma i due Fratelli sul divanetto accanto a me parlano.
Michelle... Bel nome... Io faccio il fotografo, Michelle...
Eccola la, quella luce nei suoi occhi che urla "Toreador!" appena parli di queste cose.
Magari ti faccio un servizio fotografico Michelle, saresti un ottimo modello...


Ecco, mi bastava incominciare a parlare di cose interessanti per farla arrivare, come quando ero ragazzo e l'autobus passava sempre quando mi accendevo la sigaretta.
No, non è lei. Due buttafuori, i classici gorilla senza cervello...

Sì, eccola, c'è anche lei.
Tacchi alti, vestito rosso e scollato, bionda... Semplicemente rivoltante, con quell'aria da Marylin Monroe dei Cainiti. Come se me ne battesse qualcosa del suo presunto fascino. Forse è meglio se faccia finta di ascoltarla adesso: ho idea che sia una stronzetta permalosa.

19.6.11

Dalle memorie di Ruby - L'arrivo a Venezia

19 Ottobre 2013 - 21:00 circa
La voce gracchiante dell'altoparlante che annunciava l'imminente arrivo a Mestre mi riscosse dai pensieri in cui mi ero perso. Con la mano destra tastai la tracolla da viaggiatore che indossavo sopra alla giacca in pelle. Come se qualcuno potesse essersi avvicinato per rubarla senza che me ne accorgessi... Ma vent'anni di immortalità non sono abbastanza per farti perdere alcune vecchie abitudini.
Ero teso, preoccupato, fino all'esagerazione. "Calmati Ruby, non essere ridicolo..."
Me lo ero ripetuto spesso durante il viaggio.
Mentre il treno si fermava e ripartiva in vista della stazione di Santa Lucia cercai di nuovo tramite il cellulare informazioni o aggiornamenti sulle maggiori testate giornalistiche italiane e straniere.
Nessuna nuova notizia, esclusi i dibattiti sugli annunci dei politici per i progetti di ricostruzione.
Le cause del maremoto di Venezia rimanevano attribuite ad uno smottamento non ben localizzato nel mar Adriatico. Un fenomeno sismico di piccolo conto probabilmente, ma che aveva avuto la sfortunata coincidenza di avvenire nei pressi della città più esposta ai rischi di un'onda anomala in tutto il mondo. "Una tragica fatalità".
Tragico, sì. Fatalità...
Guardai l'orologio che portavo al polso. L'orario di arrivo previsto era passato da dieci minuti, ma era un ritardo più che accettabile. Dovetti di nuovo porre freno all'ansia crescente.
Sbirciai fuori del finestrino e distinsi le luci della laguna avvicinarsi.
Avevo un minuto. Più che sufficiente.
Chiusi gli occhi e mi concentrai.
"Sire, sono quasi giunto a Venezia"
Ci volle qualche secondo perché nella mia mente prendesse forma la risposta.
"Ottimo. Ricorda le tue istruzioni, e non deludermi, infante."
Sospirai "Farò del mio meglio, mio Maestro".
Interruppi la comunicazione telepatica e mi abbandonai sul sedile, e misi in fila i miei pensieri, così da affrontare l'arrivo nella capitale veneta con calma e razionalità.
È più facile affrontare i problemi se ti prendi un attimo di tempo per studiarti la situazione.
Stavo arrivando a Venezia.
Venezia, patria città del clan Giovanni, clan di necromanti che si era sempre dichiarato indipendente.
Tra loro e la Camarilla esiste una sorta di patto di non belligeranza. I due gruppi non hanno troppi interessi in comune. Il clan Giovanni è molto chiuso e non si interessa agli affari della Camarilla, e la Camarilla non presta troppa attenzione e non nutre particolare curiosità per le pratiche del clan.
E' vero che noi vampiri siamo clinicamente morti, ma rialzare i cadaveri dalle tombe e immischiarsi con gli spiriti è un'altra faccenda... Meglio non averci a che fare.
Ma qualcosa era cambiato. Sembrava che l'intero clan residente a Venezia fosse scomparso, e che la comunità vampirica della città fosse in subbuglio. Assolutamente comprensibile, visto che i Giovanni erano stati i padroni di Venezia sin da tempo immemore.
Le cause della sparizione: mistero.
Il modo: mistero.
Le conseguenze: mistero.
La sparizione di un clan, seppur (e forse sopratutto) non in seno alla Camarilla era un fatto grave. La Setta non poteva rimanere inerte e inattiva. Per questo io e altri Fratelli arruolati in giro per il mondo eravamo stati mandati per indagare sull'accaduto.
A quanto mi era stato riferito era la Camarilla a detenere il Dominio di Venezia al momento.
Interessante.
Riaprii gli occhi e fissai il piccolo trolley adagiato sul porta valigie del treno.
Speravo solo di non scoprire le cose sbagliate.
Io ero un inviato della Camarilla. Già. Ma ora stavo entrando nel territorio di un'altra Camarilla.
Il treno cominciò a frenare. Bloccai lo schermo del telefono, lo infilai nella borsa, mi alzai e sistemando la tracolla, afferrai il mio trolley e mi diressi alla porta più vicina.
La stazione di Santa Lucia era piccola, ma non affollata. Sopratutto non a quell'ora. Quasi nessuno scese dal treno a parte me, e incontrai poche persone nel tragitto verso l'uscita.
Non avevo molte informazioni, non sapevo chi dovevo incontrare, nè come si sarebbe fatto riconoscere.
Decisi di affidarmi alla Vera Vista. Mi fermai appena uscito dalla stazione. Ammirai per un attimo la scalinata che portava alla piazza, che dava direttamente sul Canal Grande. Osservai i palazzi che sull'altra riva fiondavano le loro facciate dritte nell'acqua, i traghetti e le imbarcazioni che passavano in quel tratto di canale, le persone. Era molto affascinante. Effettivamente, non ero mai stato a Venezia. Né da vivo, né tantomeno da morto. Quando respiri e puoi lasciare il panorama della Serenissima mozzarti il fiato è un conto. Per noi morti recarsi a Venezia spesso poteva essere una scelta dai rischi... inaccettabili.
Speravo solo che non fosse così per me.
Chiusi gli occhi e mi concentrai. Riaprendoli, il potere del mio sangue mi mostrò attraverso di essi uno spettacolo leggermente diverso. Le persone attorno a me ora apparivano differenti, circondate da un alone di colori e bagliori. Mi fermai un attimo a osservare le aure dei passanti. Tutti umani. Mi voltai per osservare altri soggetti.
Mi si gelò il sangue nelle vene per un attimo. Mi voltai di scatto verso l'interno della stazione, cercando di individuare il bagliore di un aura troppo vivida per essere quella di un essere umano, o anche di un vampiro.
Nulla.
Richiusi gli occhi e mi calmai. Ero troppo teso. Troppo.
"Ruby, senza la calma non hai il controllo... Calmati."
Avevo tutti i motivi per essere teso, ma feci l'unica cosa logica da fare. Mi calmai. Riaprii gli occhi e continuai a cercare.
Scesi con calma i gradini della stazione e mi diressi verso il canale, trascinando rumorosamente il trolley sui mattoni della piazza.
Dovevo raggiungere Palazzo Ducale, se qualcuno non si fosse messo in contatto. L'elisyum del Principe era lì, dove fino a pochi giorni prima era stato il ritrovo del Doge. Giovanna Zambon. Primo Vampiro della comunità Giovanni a Venezia. Ovviamente, anche lei sparita.
Mi feci strada finio alle mappe della mobilità urbana del luogo, e localizzai Palazzo Ducale. Non era lontano. La città non era grande, a piedi e con un po' di tempo si poteva raggiungere praticamente ogni luogo delle due isole sul Canal Grande.
Ma l'idea di aggirarmi da solo tra le viuzze di Venezia non mi attirava particolarmente.
Decisi di approfittare e di fare il turista, godendomi la traversata sul Canale con il traghetto, per arrivare direttamente in Piazza San Marco. Mi voltai per raggiungere le biglietterie... Mi ricordo che lì per lì non seppi che pensare quando lo vidi.
A pochi passi da me stava un ragazzo dagli sfibrati capelli biondo pallido lunghi sino alle spalle, con un cappello a punta blu con stelle bianche stile apprendista stregone, dei jeans blu elettrico glitterati, degli stivali che sembravano essere in pelle di coccodrillo lunghi fino al ginocchio, la maglietta di un gruppo metal chiamato Stratovarius e una lunga giacca di stoffa blu scuro con un motivo di occhi di varie grandezze, forme e colori. E aveva gli occhi spalancati a fissarmi, con un'aria un po' sognante, e sorridente.
Mi bloccai e lo fissai per cinque secondi buoni, squadrandolo dalla punta del cappello a quella degli stivali.
Usai di nuovo il potere del mio sangue e osservai la sua aura. Pallida. Come quella di un vampiro.
- Ciao!
Fu lui a salutarmi per primo, senza muovere un muscolo che non servisse solo a parlare.
- Tu sei il francese, vero? - mi chiese con voce squillante.
Mi ripresi dallo choc che il suo stesso abbigliamento costituiva e lo guardai negli occhi.
- Veramente sono svizzero - risposi con un mezzo sorriso. Lui reagì alzando il mento e squadrandomi un po'.
- Aaaaaaah, sì sì un orologiaio, capisco... Però hai un nome francese, vero? Parli anche come loro, tipo con una biscia tra i denti...
Aprii le labbra in una piccola risata. Effettivamente il mio accento mi tradiva.
- Sì, il mio nome è francese. E io parlo francese.
- Ah... Bene! Ottimo ottimo... - assunse un'aria un quasi meditativa - Allora devi venire con me! - esclamò poi allegro, voltandosi di spalle e cominciando a camminare. Dopo tre passi si accorse che non mi ero mosso e si voltò nuovamente verso di me.
- Dai, non ho tutta la notte! Sei atteso, non vorrai farli aspettare, no? - aveva la chiara espressione di chi sta aspettando impaziente che qualcuno faccia qualcosa di ovvio.
Ma io non mi mossi. Continuavo a guardarlo con un certo divertimento.
- E dove e da chi mi porteresti, di grazia? - chiesi con calma e cortesia.
Lui mi guardò, poi puntò lo sguardo verso il Canale, e alzò il dito a indicare un'imbarcazione con un uomo a bordo posteggiata su uno dei moli della piazza.
- Beh, prima ti porto sul motoscafo, mi pare ovvio.
Guardai l'imbarcazione, e osservai l'uomo a bordo, vestito in giacca e cravatta. Lo osservai con la Vista. Un ghoul.
Tornai a guardare il mio interlocutore.
- E poi dov'è che andrà il motoscafo?
Mi guardò stranito, come se stessi facendo una domanda da una banalità allucinante.
- In acqua, è ovvio!
Mi zittii un secondo.
- ... e poi?
Strabuzzò gli occhi e poi ci pensò un po' su.
- Ah, sì, certo, stavo per dimenticarmi! Poi ci porterà all'Etoile d'Or!
C'erano altre persone nella piazza, e il ragazzo stava attirando un po' d'attenzione.
Mi avvicinai a lui, chiedendo a bassa voce: - E chi mi aspetta all'Etoile d'Or?
Lui mi si avvicinò ancora di più e mi sussurrò in un orecchio.
- Lì c'è Annalisa, la signorina Annalisa cioè... Lei è... Accidenti, come si chiama? La donna con le ali del Principe... Faccia di donna corpo di uccello. Ah, ma anche tette di donna, già, gli uccelli non hanno le tette... Insomma, un po' donna un po' aquila... - stava distintamente sforzandosi nel ricordare una definizione, poi d'improvviso schioccò entrambe le mani e mi puntò gli indici contro, con l'aria di chi ha trovato una soluzione geniale a un problema molto complesso – Quelle di Enea, hai presente?
L'Arpia. Una carica della Camarilla. Mi rilassai un poco. Dopotutto quel tizio poteva essere chiunque, ma dopo quelle parole le possibilità che fosse un esterno all'organizzazione della città diminuiva. Ma non si è mai certi.
- Caspico. Come mai devo andare da lei e non... Dove di consueto? - gli chiesi sussurrando anche io.
- Intendi a Palazzo? Ah, questo non lo so, ordini del Principe pare. Credo che stanotte abbia da fare. Comunque diamine, ti dirà tutto lei, se vi ha mandato a chiamare tutti voi nuovi arrivati ci sarà un motivo no?
Dunque anche gli altri inviati erano stati richiamati dall'Arpia.
- Certo, c'è sempre un motivo... Va bene, guidami.
Lo seguii sul gommone, osservando la sua camminata saltellante. L'uomo in giacca e cravatta accese il motore mentre ci avvicinavamo, e appena fummo a bordo partimmo.
La mia guida se ne stava sul ciglio della prua come fosse un lupo di mare, osservando la città di fronte a lui.
Non potei che chiedermi perché mai fosse un figlio di Malkav a farmi da guida.
Mi schiarii la voce.
- Dunque... Com'è la situazione qui?
Lui si girò a guardarmi.
- Situazione? Oh beh, credo proprio un disastro, sì! - si voltò di nuovo verso la prua – sì sì, un disastro, sì...
Mi alzai e percorsi il motoscafo, raggiungendolo. Si voltò di nuovo a guardarmi.
Alzai la mano e gliela offrii.
- Comunque piacere, il mio nome è Ruby – dissi.
Guardò la mia mano con aria curiosa.
Poi la strinse, mi guardò negli occhi con quel suo sguardo stralunato e pronunciò come se fosse una parola magica il suo nome, quasi alitandola fuori della propria gola.
- Sunshine!
Gli sorrisi e tornai a posto.
Ci vollero pochi minuti per raggiungere una calle con altre imbarcazioni già ormeggiate. Acuii la mia vista e vidi gli altri.
Non li conoscevo allora, ma da lì a poco, avremo cominciato a vedercela davvero brutta.